Se non mettiamo la Libertà delle Cure mediche nella Costituzione, verrà il tempo in cui la medicina si organizzerà, piano piano e senza farsene accorgere, in una Dittatura nascosta. E il tentativo di limitare l'arte della medicina solo ad una classe di persone, e la negazione di uguali privilegi alle altre arti, rappresenterà la Bastiglia della scienza medica.
Benjamin Rush, firmatario della Dichiarazione d'Indipendenza USA, 17 Settembre 1787

domenica 27 novembre 2016

Intervista a Claudio Pusceddu

Questa interessante intervista risale al 14 settembre del 2013 e ce l'abbiamo grazie all'Unione Sarda che ha pubblicato l'articolo di Giorgio Pisano.
La posto qui per voi ma anche, se non soprattutto, per me.
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Caldo e freddo corrono sul filo della vita nella guerra infinita contro i tumori. All’Oncologico di Cagliari, ospedale regionale che raccoglie pazienti provenienti un po’ da tutta l’Isola, si esegue da una decina d’anni la crio e la termo ablazione. In pratica, si prova a distruggere le cellule cancerose portandole a temperature piuttosto alte o molto basse. La scelta tra caldo e freddo è legata a ragioni molto precise.
Dopo un lungo rodaggio, questa tecnica è oggi molto diffusa. Per affermarsi ha dovuto tuttavia superare parecchie resistenze. Forse a provocare qualche allergia è il fatto che ad eseguirla non sia un chirurgo ma un radiologo, che insomma non ci sia affatto bisogno del bisturi per ottenere risultati incoraggianti.
Claudio Pusceddu ha eseguito l’anno scorso 350 interventi. Viene da lontano: è stato tra i primi in Italia e fra i primissimi in Europa a eseguire una crio-ablazione, tanto è vero che l’Oncologico è ancora adesso un centro di riferimento nazionale. Figlio di un agricoltore di Villanovaforru, ha 54 anni, due figli, carriera cominciata nel 1991 e uno stipendio che non arriva a 3.500 euro comprese indennità varie. Racconta che, dopo la laurea, ha sentito «una forte attrazione per le immagini, e questo perché la Radiologia abbraccia tutti i campi della Medicina». Normalmente si occupa di Tac e proprio grazie alla Tac ha sviluppato questa sorta di super-specializzazione. Ne ha parlato in quattro occasioni negli Stati Uniti, a primavera dell’anno venturo ne riferirà in Cina.
Un suo paziente, “trattato” per metastasi polmonare e tumore al colon nel 2004, è ancora vivo. Anzi: libero da tumore , per usare l’espressione degli addetti ai lavori. Spiega che si tratta di un caso eccezionale ma è comunque in grado di fornire una casistica confortante. Relegato in una cella-stanzetta al primo sottopiano dell’ospedale, si dichiara «soddisfatto perché credo di fare qualcosa di utile» e definisce ottimo il rapporto con l’azienda ospedaliera, niente recriminazioni o lamentele. Un camice bianco molto particolare insomma, certamente diverso da tanti suoi colleghi che protestano perché il mondo non s’è ancora accorto di loro.
Respinge l’accusa secondo cui, tutto sommato, non fa altro che accompagnare i malati verso l’obitorio e nega che alla morte ci si possa abituare. «Alla tua, a quella personale sì. L’importante è arrivarci con serenità, con la sensazione di non essere stato un uomo senza qualità». A bruciare è la morte dei pazienti «perché, a forza di vederli, gli leggi negli occhi la disperazione di vivere».

Cos’è la radiologia interventistica?
«È una branca della Medicina che non si limita a certificare un’eventuale malattia ma interviene direttamente sul disturbo. È nata una trentina d’anni fa ma negli ultimi quindici ha subìto un’accelerata tecnologica impressionante. Oggi esiste perfino una Radiologia vascolare che, attraverso l’uso di cannule, arriva al bersaglio. Quella extravascolare, di cui mi occupo io, utilizza invece altri strumenti per raggiungere l’obiettivo».

Raffreddate o riscaldate i polmoni, giusto?
«Tecnicamente si chiamano crio-ablazione o termo-ablazione, che eseguiamo anche col microonde: i risultati sembrano darci ragione. Ad interessarci non sono soltanto i polmoni ma anche lo scheletro. Da due anni interveniamo, in certi casi, pure sui tumori della mammella».

Caldo o freddo: in base a cosa scegliete?
«Dipende, sono tecniche diverse. Con la termo-ablazione distruggiamo, nel senso letterale del termine, le cellule malate. Con la crio-ablazione, stiamo parlando di venti gradi sotto zero, invece le congeliamo».

E quando si scongelano che accade?
«Trattata a quelle temperature per pochi minuti, la cellula malata non sopravvive e muore. Dunque quando si scongela non è più in grado di nuocere e l’organismo la assorbe senza difficoltà. La tecnica non è invasiva». 

In che senso?
«Beh, arriviamo al tumore con un ago e ne seguiamo il cammino con le immagini che ci manda la Tac. Una volta vicini al bersaglio, scegliamo se servirci del caldo o del freddo. Di fronte a metastasi polmonari o a tumori collocati in aree particolarmente delicate (vicini al cuore o ai grandi vasi), in genere ricorriamo alla crio-ablazione. Che peraltro non è dolorosa».

L’altra, sì?
«Nel ricorso al microonde, specialmente in pazienti che magari non tollerano una sedazione profonda, qualche fastidio si avverte. Inevitabile. D’altra parte stiamo parlando di temperature attorno ai cento gradi».

Quanti ospedali praticano questa tecnica in Italia?
«Non lo so, sicuramente quello di Varese. Molti fanno la termo-ablazione, pochissimi la crio».

Quanto dura e quante volte si deve ripetere il trattamento?
«Col microonde la seduta può durare da tre-quattro minuti fino a un massimo di venti. Con la crio-ablazione serve circa un’ora. Quante volte? Dipende dal tumore: se è piccolo, può bastare un solo intervento, altrimenti bisogna riprovarci. Questa tecnica è ripetibile senza conseguenze o quasi».

Serve soltanto nella lotta ai tumori?
«Sì, o almeno noi la utilizziamo quasi esclusivamente per questo. Ce ne serviamo da una decina d’anni. Quando ho cominciato, nel 2004, c’erano pochissime esperienze nel mondo».

Quali sono i vantaggi rispetto alle terapie tradizionali?
«Queste tecniche non sostituiscono le terapie tradizionali: bisogna dirlo subito e chiaro. Bisturi e chemio hanno un ruolo fondamentale. Solo in certe situazioni (paziente anziano e inoperabile, nessun risultato dall’intervento chirurgico, inefficacia della chemio) possiamo entrare in azione noi. I vantaggi sono un trattamento mini-invasivo e una degenza piuttosto breve. Non è poco».

Effetti indesiderati?
«Pneumotorace se parliamo di polmoni o versamenti pleurici. Niente di allarmante, comunque».

Risultati complessivi?
«Sopravvivenza di due-tre anni rispetto alla media. Ma l’importante è la qualità della vita, discorso che diventa particolarmente significativo nei pazienti con tumore inoperabile. Senza dimenticare che il trattamento può essere tranquillamente ripetuto dopo sei mesi».

Bilancio finale?
«Nell’80 per cento dei casi otteniamo una guarigione completa. Intendendo per guarigione completa la distruzione del tumore. La stessa percentuale riguarda gli interventi sullo scheletro».

In cosa differiscono?
«Nel trattamento sulle ossa non ci limitiamo a distruggere il tumore ma utilizziamo anche cemento ortopedico per rafforzare la parte trattata. Nel caso delle vertebre, il beneficio è immediato ed evidente: il malato torna a camminare, a sedersi e a muoversi senza difficoltà».

L’emozione della prima volta.
«Non ero terrorizzato ma conscio fino in fondo dell’importanza e dei rischi di quello che stavo per fare. Il trattamento riguardava una donna che aveva metastasi polmonari. La tecnica, allora, era decisamente innovativa, poche le pubblicazioni sulle riviste internazionali: dunque avevo bisogno della massima concentrazione».

Dove ha imparato?
«A Varese. A incoraggiarmi, e mi interessava su questo punto convincere i colleghi, era il fatto che in fondo non stavo facendo niente di più complicato d’una normale biopsia».

Sono servite autorizzazioni della Commissione etica?
«Non ce n’è stato bisogno. Ne ho parlato col mio primario, poi abbiamo proposto l’acquisto delle apparecchiature e iniziato a operare subito dopo. Trattandosi di una metodica che veniva già praticata dagli epatologi, non ci sono state grandi perplessità».

Avete fatto prima una sperimentazione?
«No, per la semplice ragione che non era necessario».

Quindi niente volontari o, per meglio dire, cavie?
«Non mi sono mai servito di volontari. Ogni paziente è stato preventivamente informato sul tipo di intervento che andava a subìre e quali pericoli poteva correre».

Cavie sono anche i malati che non hanno nulla da perdere.
«Ho capito. Ma noi siamo molto lontani da questo genere di riflessioni. L’obiettivo che mi pongo, di fronte a qualunque paziente, è tentare di salvarlo. Questo presuppone che ogni trattamento venga eseguito con estrema attenzione, a prescindere dal quadro clinico del malato. Le eccezioni riguardano altro».

Per esempio?
«Se mi rendo conto che una crio o una termo-ablazione non servono a nulla, sono il primo a sconsigliarla. Davanti a metastasi imponenti, a tumori che non lasciano più speranza, mi sono sempre tirato indietro. Farlo per farlo, il trattamento dico, non ha nessun senso. Questione di etica».

Nessuno che insista?
«Ci sono mille modi per informare un paziente sulle sue reali condizioni di salute. Si tratta di scegliere l’approccio adatto evitando toni apocalittici».

Malati che segnano la vita di un medico.
«Sono tanti. Nel tempo si stabilisce un dialogo e questo pesa nel rapporto coi pazienti. Mi è capitato di vedere tumori apparentemente sconfitti riaffiorare all’improvviso in maniera devastante. Li considero una caporetto professionale. Il guaio, in quei momenti, è trovare il coraggio di parlarne: non è facile dire ad un uomo che il tempo della speranza è finito».

Ma ha un senso prolungare la vita di due anni?
«Eccome se ce l’ha, provi a chiedere ai diretti interessati. I pazienti vogliono vivere e, possibilmente, senza soffrire. Talvolta questo discorso vale anche quando dicono, mentendo a se stessi, che non gli importa più di tirare a campare. Molto dipende dall’ambiente familiare e sociale che hanno intorno».

Quanti le hanno chiesto di aiutarli a morire?
«Nessuno, mai. Sono cattolico ma, al di là di quella che sarebbe la mia ovvia risposta, non ho incontrato nessuno che mi abbia rivolto una domanda così».

La sua metodica ha trovato seguaci?
«Vuol sapere se ci sono altri colleghi che praticano? Che io sappia, no. All’Oncologico sono l’unico ad essersi specializzato in questo settore».

Reazioni interne?
«Agli inizi c’è stata un po’ di curiosità, non da parte di tutti s’intende. Invidia? Non ne ho raccolto, forse per via del mio carattere. Sono piuttosto schivo, non amo litigare e tantomeno primeggiare. Non ho mai cercato di imporre le mie scelte sul lavoro. A ciascuno il suo».

Lei però è solo. Non le pesa?
«In parte. Mi dispiace non avere accanto colleghi interessati ad approfondire e magari eseguire i trattamenti di crio e termo. Per fortuna c’è qualcuno che arriva da altri ospedali per vedere dal vivo come funziona il nostro sistema».

Prospettive future?
 «Questa metodica avrà un grande sviluppo e, sia pure lentamente, toglierà molto spazio alla chirurgia».

Ai chirurghi non siete molto simpatici.
«I pazienti chiedono interventi meno invasivi possibile. L’orientamento dei congressi internazionali è praticamente identico. Di conseguenza è inevitabile che si vada avanti su questa strada».

In Germania usano la stessa tecnica per i tumori cerebrali.
 «Sì, ma si tratta di un intervento esterno, senza aghi e cannule. Riscaldano il cervello per rallentare o bloccare lo sviluppo delle cellule cancerose».

Vale la pena di sperare?
«La Medicina ha compiuto passi enormi e non ha nessuna intenzione di fermarsi».

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